L’industria della moda è un vasto universo che condiziona le nostre scelte nell’acquisto dell’abbigliamento.

Volutamente o inconsciamente si diventa consumatori veloci di capi di qualità modesti, con costi di acquisto irrisori se non bassi; è il fenomeno definito fast-fashion, uno dei colpevoli della crisi ecologica in atto, giacché il consumo genera scarti tessili enormi, spreco di acqua, emissioni di gas serra ed inquinanti.

Perché allora nel linguaggio della moda si continua ad usare termini generici ingannevoli come “eco-friendly”, “verde”, dando l’impressione di attributi ambientali positivi? E’ questo il greenwashing, in realtà un linguaggio vago, che non certifica il processo produttivo e il prodotto finito.

Parlare allora di moda sostenibile è doveroso, perché questo implica innanzitutto l’uso di tessuti organici e certificati, assenza di economia di scala, minore impatto ambientale, rispetto delle condizioni dei lavoratori del tessile sotto l’aspetto umano e remunerativo, assenza di inutili sovrapproduzioni.

Il tema principale legato alla moda sostenibile è l’uso di fibre naturali come la canapa, il lino e la juta, che non richiedono l’utilizzo di sostanze nocive per l’ambiente. Tra le fibre artificiali ecocompatibili ci sono il bamboo, modal certificato tencel e fibre sintetiche ottenute dal riciclo della plastica o dalle reti da pesca recuperate nel mare.

Il comportamento virtuoso del consumatore finale diventa allora importante, quando è attento alla lettura delle etichette, quando compra meno ma meglio, si domanda chi ha prodotto quel capo e perché ha un costo così basso.